Giovambattista Palumbo
24 Dicembre 2018
Operazioni con esportatori abituali: l’imponibilità dipende dall’intento
Giurisprudenza
Operazioni con esportatori abituali:
l’imponibilità dipende dall’intento
Nell’ipotesi in cui la dichiarazione sia esistente, ma falsa, oppure il cedente sia consapevole della sua inattendibilità, è necessario procedere alla fatturazione dell’imposta
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 32257 del 13 dicembre 2018, ha chiarito alcuni rilevanti aspetti della disciplina in materia di dichiarazioni di intento nell’ambito del regime degli esportatori abituali.
Nel caso in esame, la società contribuente aveva impugnato un avviso di accertamento, relativo a Irpeg, Irap e Iva per l’anno di imposta 2003, emesso in seguito a una verifica generale effettuata nei suoi confronti dalla direzione regionale Toscana.
In particolare, durante la verifica, erano state riscontrate diverse irregolarità, tra cui anche l’omessa applicazione dell’Iva nell’ambito di rapporti commerciali con una ditta esportatrice abituale, la quale, ai sensi dell’articolo 8, comma 1), lettera c, del Dpr 633/1972, aveva emesso, il 18 dicembre 2002, una dichiarazione d’intento, per compiere operazioni senza applicare l’Iva per l’anno successivo. Tale dichiarazione era, però, stata inviata il 28 gennaio 2003, tanto che, nell’apposito registro delle dichiarazioni di intento, tenuto dalla società ricorrente, l’annotazione della ricezione della dichiarazione aveva la data del 30 gennaio 2003. Peraltro, il documento di trasporto allegato alla fattura contestata indicava come data di consegna il 27 gennaio 2003, evidenziando quindi come la consegna e spedizione della merce fossero avvenute prima della ricezione della lettera d’intento e anteriormente all’invio della relativa comunicazione della ditta esportatrice abituale.
Altra irregolarità concerneva poi la mancata regolarizzazione delle fatture ricevute senza Iva, ai sensi dell’articolo 6, comma 8, del Dlgs 417/1997, ma da assoggettare a imposta, vista la revoca della dichiarazione di intento del venditore.
La Commissione tributaria provinciale di Firenze accoglieva il ricorso della società, con sentenza poi confermata anche in sede di appello.
La Ctr, nel fare proprie le difese della società, aveva in particolare ritenuto che, quanto alla prima tematica della dichiarazione di intento, la non applicazione dell’Iva non costituiva evasione d’imposta, poiché non vi era stato “splafonamento” e, comunque, il contribuente disponeva della dichiarazione d’intento già il 18 dicembre 2002.
L’Agenzia delle entrate proponeva, quindi, ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse sulla questione sopra evidenziata, che la controversia concerneva il ruolo della dichiarazione di intento ex articolo 8 del Dpr 633/1972 e il suo rapporto con il plafond, dovendosi anche chiarire se detta dichiarazione assumesse efficacia al momento della sua emissione o se dovesse comunque essere formalmente comunicata al destinatario.
La suprema Corte, nell’accogliere il ricorso dell’amministrazione, rileva in particolare che il sistema in esame individua, per l’esportatore abituale, nel plafond, costituito dall’ammontare complessivo dei corrispettivi delle esportazioni, il limite quantitativo monetario utilizzabile nell’anno successivo, ai fini della possibilità di effettuare acquisti senza applicazione dell’imposta, laddove la giurisprudenza di legittimità subordina la non imponibilità delle cessioni all’esportazione all’emissione di specifica dichiarazione d’intento da parte dell’esportatore medesimo, mentre il soggetto cedente, una volta riscontratane la conformità alle disposizioni di legge, non è tenuto ad altri controlli, rimanendo a carico di chi emette tale dichiarazione la responsabilità dell’eventuale falsità (cfr Cassazione 21956/2010).
Pertanto, conclude la Corte, unicamente ove la dichiarazione stessa esista e non sia falsa o il cedente non sia consapevole della sua falsità, l’operazione non è imponibile (cfr Cassazione 176/2015), altrimenti è dovuta la fatturazione dell’imposta (cfr Cassazione 5174/2017).
La normativa, infatti, ha previsto un’ipotesi di sospensione dell’imposta, nella quale la dichiarazione non incide sulla procedura di accertamento del tributo, ma su quella di riscossione, individuando l’esistenza del plafond e, dunque, le condizioni in presenza delle quali il pagamento dell’imposta è sospeso per chi sia nelle condizioni di legge e lo dichiari sotto la propria responsabilità (cfr Cassazione 3623/2006).
Il rispetto del plafond, quindi, esclude un diverso accertamento dell’Iva, ma non ne impedisce la riscossione se la dichiarazione di intento si riveli falsa o manchi.
Pertanto, la Ctr non aveva motivato la sua decisione, avendo escluso la recuperabilità dell’Iva per il solo fatto che non vi era stato “splafonamento”, nonostante però l’amministrazione chiedesse di esaminare il profilo relativo alla dichiarazione di intento, e solo questo fosse oggetto del contendere.
Ciò che poi assumeva in particolare rilievo era la questione, posta dall’Agenzia delle entrate, se detta dichiarazione acquisisse efficacia al momento dell’emissione, o se dovesse, al contrario, essere pure stata comunicata al destinatario prima dell’operazione interessata.
E ciò, soprattutto, alla luce della giurisprudenza per la quale la dichiarazione di intento va comunque consegnata o spedita prima del compimento dell’operazione, laddove, ai sensi dell’articolo 6, comma 1, del Dpr 633/1972, le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione se riguardano beni immobili e nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni mobili.
La decisione della Ctr era, quindi, sul punto, non motivata, avendo omesso di valutare il profilo dell’avvenuta spedizione e ricezione della dichiarazione di intento dopo il completamento dell’operazione.
Inoltre, anche la censura attinente la mancata regolarizzazione delle fatture ricevute senza Iva, nonostante la revoca della dichiarazione di intento del venditore, secondo la suprema Corte, era fondata.
L’amministrazione procedente, infatti, su questo profilo, affermava che la società aveva acquistato beni e servizi tramite degli esportatori abituali, che avevano emesso delle fatture con indicazione della non imponibilità ex articolo 8 del Dpr 633/1972 in base alle dichiarazioni di intento della società medesima.
Tali dichiarazioni di intento, però, erano state poi tutte revocate in seguito, con decorrenza retroattiva al 10 luglio 2003.
L’Agenzia delle entrate, perciò, aveva contestato che, per tali operazioni, i fornitori avrebbero dovuto emettere fatture con addebito Iva. Non essendo ciò avvenuto, la società era tenuta a regolarizzare le fatture e, non avendolo fatto, a corrispondere l’Iva non versata e a pagare le sanzioni di legge, ai sensi dell’articolo 6, comma 8, Dlgs 471/1997.
La Ctr, anche in questo caso, aveva respinto l’appello perché non vi era stato “splafonamento”.
La Cassazione, per le stesse ragioni esposte in merito al primo profilo sopra esaminato, affermava dunque che la motivazione era in realtà assente.
Infatti, la Ctr non aveva affrontato la questione, oggetto di appello, dell’inefficacia sopravvenuta (sotto forma di revoca) della dichiarazione di intento, presupposto indefettibile per l’operatività del meccanismo dell’articolo 8 del decreto Iva.
Anche alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, infatti, la Corte rileva come la revoca della dichiarazione di intento produce l’effetto immediato (o decorrente, almeno, dalla ricezione della revoca stessa) di rendere applicabile l’Iva, con la conseguenza che la fatturazione successiva deve tenere conto che l’operazione segue il regime ordinario (cfr Cassazione 5174/2017).
pubblicato Mercoledì 2 Gennaio 2019
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