8 Luglio 2021
Smart working dei distaccati in Cina, rilevante in Italia ai fini fiscali
Il reddito di lavoro dipendente svolto in Italia e percepito dai dipendenti della consociata cinese rileva fiscalmente anche nel nostro Paese, sulla base del combinato disposto fra l’articolo 23, comma 1, lettera c), del Tuir e l’Accordo contro le doppie imposizioni tra Italia e Cina. È una delle precisazioni dell’Agenzia contenute nella risposta n. 458 del 7 luglio 2021.
Nell’interpello in esame una holding chiede quali siano gli obblighi fiscali in qualità di sostituto d’imposta nei confronti di quei dipendenti che, pur continuando a lavorare per la consociata cinese cui erano stati assegnati, a causa delle restrizioni dovute al Covid sono fisicamente in Italia in smart working. L’istante, in particolare vuole sapere:
- se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, nell’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso per i giorni di lavoro svolti in remoto sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti, quindi imponibile nel nostro Paese
- se invece la permanenza in Italia per un periodo superiore ai 184 giorni abbia comportato una modifica nel loro status di residenza fiscale
- nel caso in cui questi ultimi dipendenti fossero da considerare residenti in Italia, se la base imponibile di lavoro possa essere determinata considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all’emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero (articolo 51, comma 8-bis del Tuir).
L’Agenzia, dopo aver premesso che la residenza dei lavoratori della società istante viene assunta senza alcuna valutazione essendo un elemento fattuale che esula dalla competenza degli interpelli, ricorda, con riferimento alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente, l’articolo 15 del modello di Convenzione Ocse prevede che l’attività è esercitata nel luogo in cui il dipendente è fisicamente presente. In tal senso l’Italia ha stipulato degli Accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell’articolo 15 con l’Austria, la Francia e la Svizzera, Stati limitrofi con alta incidenza di frontalieri. Gli accordi sono orientati a neutralizzare le conseguenze fiscali delle misure di restrizione alla movimentazione delle persone, dovute all’emergenza sanitaria, nei confronti dei lavoratori residenti in uno Stato contraente i trattati. Tali accordi amichevoli, precisa l’Agenzia, siglati a condizioni di reciprocità, non possono trovare applicazione nei confronti di altri Paesi per cui, nel caso in esame, la rilevanza fiscale in Italia dei redditi di lavoro dipendente prodotti dai lavoratori della holding istante dovrà essere valutata in base alla Convenzione per evitare le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Cina (ratificata con legge n. 376/1989).
Riguardo al primo quesito, relativo ai dipendenti che hanno svolto l’attività lavorativa per un periodo inferiore a 184 giorni, l’Agenzia ricorda che in base all’articolo 23, comma 1, lettera c) del Tuir si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di lavoro dipendente prestato da soggetti non residenti nel territorio dello Stato. Tale disposizione non trova applicazione nel caso sia stata stipulata una convenzione che riconosca all’altro Stato la potestà esclusiva sul reddito da lavoro dipendente svolto in Italia.
Al riguardo, viene ricordato che l’articolo 15, paragrafo 1 – Lavoro Subordinato del citato Accordo, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per l’attività svolta nell’altro Stato, sono imponibili in entrambi gli Stati.
Quindi in base al combinato disposto dell’articolo 15 della citata Convenzione e dell’articolo 23 del Tuir, l’Agenzia ritiene che il reddito di lavoro dipendente svolto in Italia e percepito dai dipendenti della consociata cinese rilevi fiscalmente anche nel nostro Paese (articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del Tuir) e non può applicarsi la misura contenuta nel paragrafo 2 dell’Accordo in esame, che riconosce la potestà impositiva esclusiva dello stato di residenza del lavoratore per il reddito relativo all’attività svolta nell’altro Stato, in quanto manca una delle tre condizioni previste dalla norma e cioè che “b) le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro chenon è residente dell’altro Stato”. Nel nostro caso, infatti, la remunerazione è erogata da un datore di lavoro residente in Italia.
La conseguente doppia imposizione, precisa il documento di prassi, sarà risolta con il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza dei lavoratori dipendenti.
Riguardo al secondo quesito, con cui l’istante chiede se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, possa modificare lo status di residenza dei dipendenti, l’Agenzia precisa che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir “si considerano residenti le persone che perla maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Tuttavia occorre considerare anche le disposizioni degli accordi. Nel caso in esame assumono rilievo le “tie breaker rules” per dirimere le controversie, come indicato nell’articolo 4 del Trattato con la Cina. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.
In definitiva, secondo le regole interne i lavoratori si dovrebbero considerare residenti in Italia, avendo trascorso la maggior parte del tempo nel nostro Paese. Qualora però ci fossero delle controversie, dovranno essere risolte applicando i citati criteri della convenzione.
L’Agenzia nella fattispecie in esame ravvisa lo svolgimento nel nostro Paese della prestazione lavorativa da parte di soggetti residenti e precisa quindi, in risposta al terzo quesito posto dall’istante, che non potrà trovare applicazione la disciplina fiscale prevista dal comma 8-bis dell’articolo 51 del Tuir secondo cui “In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all’art. 4, comma 1, del D.L. 31 luglio 1987, n. 317,convertito, con modificazioni, dalla L. 3 ottobre 1987, n. 398”.
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