Francesco Brandi
31 Luglio 2018
Ricavi piatti e tariffe basse:ok all’induttivo per il tassista
Giurisprudenza
Ricavi piatti e tariffe basse:
ok all’induttivo per il tassista
Il nesso tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, basta che il secondo derivi come conseguenza del primo alla stregua di canoni di ragionevole probabilità
È legittimo l’accertamento induttivo al tassista che dichiara sempre lo stesso incasso mensile. Rilevante ai fini della legittimità dell’atto impositivo anche l’antieconomicità dell’attività con un prezzo medio al chilometro in contrasto con le tariffe concordate tra le categorie di settore e il Comune. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza n. 18906 del 17 luglio 2018, con cui ha respinto il ricorso di un tassista fiorentino, confermando definitivamente l’atto emesso nei suoi confronti.
Infatti, in tema di accertamento induttivo mediante l’utilizzo di prove per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza di quello conosciuto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
La vicenda parte dalla notifica di un avviso di accertamento per Irpef e Irap, con il quale veniva contestata la scarsa credibilità dei ricavi conseguiti dal contribuente, pur nel rispetto formale della tenuta delle scritture contabili.
L’atto impugnato veniva confermato in entrambi i gradi di merito.
Con il successivo ricorso per cassazione il contribuente denunciava, tra l’altro, violazione e falsa applicazione dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, nonché degli articoli 2727 e 2729 cc, per avere la Ctr erroneamente ritenuto sussistenti i presupposti per l’emissione dell’avviso di accertamento analitico-induttivo, in particolare in merito alla natura qualificata delle presunzioni a supporto della ricostruzione.
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione ricorda il consolidato orientamento secondo cui gli studi di settore costituiscono, come si evince dal Dl 331/1993, articolo 62-sexies, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, in presenza di una contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente. L’accertamento induttivo, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta (cfr Cassazione, ex multis, pronuncia 20060/2014).
Nel caso di specie, la Ctr aveva correttamente valorizzato gli elementi utilizzati dall’ufficio per la ricostruzione con argomentazioni non censurabili dal punto di vista logico-formale: in particolare, sono stati valutati i riscontri dei corrispettivi e delle schede carburante, la piattezza dei consumi e dei costi a fronte di chilometraggi diversificati nei vari trimestri, la piattezza dei ricavi pur a fronte dello svolgimento del lavoro in una città turistica come Firenze, caratterizzata da flussi stagionali, nonché l’antieconomicità dell’attività con un prezzo medio al chilometro in contrasto con le tariffe concordate tra le categorie di settore e il Comune di Firenze.
I giudici di legittimità non hanno potuto far altro che constatare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale della motivazione, essendo inibita agli stessi una diversa valutazione degli elementi di fatto. Infatti, il controllo sul vizio di motivazione non attribuisce il potere di riesame del merito dell’intera vicenda processuale.
Ulteriori osservazioni
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ricostruzione presuntiva dei ricavi può essere fondata anche sulla base dei consumi unitari di determinate materie prime o beni di consumo caratterizzanti la specifica attività controllata.
Ad esempio, nel settore della ristorazione sono stati ritenuti validi elementi il numero dei tovaglioli utilizzati, risultanti dai lavaggi effettuati, piuttosto che il consumo di caffè o di acqua minerale (“bottigliometro”), in quanto ingredienti fondamentali, se non indispensabili, nelle consumazioni effettuate.
Sul punto, la Cassazione ha più volte ribadito che tali elementi rappresentano un fatto noto, capace di per sé solo di lasciare ragionevolmente presumere il numero di pasti effettivamente forniti, così da risalire, attraverso il prezzo medio dei coperti, all’ammontare effettivo dei ricavi conseguiti (Cassazione, sentenze 17408/2010, 18475/2009 e 9884/2002).
Altri esempi di ricostruzione indiretta dei ricavi si sono avuti con il cosiddetto “farinometro” (in relazione a una pizzeria, Cassazione, sentenza 15580/2011), con il “lenzuolometro” (per un affittacamere, Cassazione, sentenza 30402/2011) e persino con il “barometro” per ricostruire l’attività di un’impresa funebre.
I risultati cui conducono tali ricostruzioni devono essere quanto meno “verosimili” in riferimento alle caratteristiche e alle concrete condizioni di esercizio dell’attività svolta: non sono mancati casi in cui la giurisprudenza (soprattutto di merito) ha dovuto annullare avvisi di accertamento basati, ad esempio, sul “tovagliometro”, in quanto tale metodologia risultava in contraddizione con altri elementi facilmente riscontrabili, come i consumi medi delle materie prime o l’effettiva capacità di posti a sedere del ristorante. Tali inconvenienti possono essere superati solo attraverso il confronto con il contribuente, utile a comprendere le peculiarità dell’attività controllata.
Da ultimo, con ordinanza 4168/2018, la Cassazione ha stabilito che è legittimo l’accertamento emesso nei confronti di un dentista attraverso la ricostruzione dei ricavi desunti dalla correlazione tra il materiale utilizzato e il numero dei pazienti trattati.
pubblicato Mercoledì 1 Agosto 2018
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