Analisi e commenti

21 Febbraio 2023

Prelievi e versamenti come ricavi, costituzionale la doppia presunzione

Con la sentenza n. 10/2023 la Corte costituzionale, ancora una volta, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 32, primo comma, numero 2), del Dpr n. 600/1973, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.
 

In breve, ricordiamo, che il comma 1, numero 2), dell’articolo 32, sotto un primo profilo, esprime una presunzione per la quale i versamenti sul conto corrente, salvo prova contraria del contribuente, ove non dichiarati o risultanti dalle scritture contabili, costituiscono ricavi “occulti” sottratti alla tassazione.
D’altra parte, la stessa norma prevede la presunzione secondo cui anche i prelevamenti sul conto, se non risultanti dalle scritture contabili dell’imprenditore e salvo che quest’ultimo ne indichi il beneficiario, costituiscono, per un pari importo, ricavi.
In tale ultimo caso, nell’intento di contrastare più efficacemente gravi fenomeni di evasione, il legislatore ha introdotto una sorta di duplice meccanismo inferenziale in forza del quale, se un imprenditore effettua un prelievo non risultante dalla contabilità, lo stesso deve ritenersi compiuto per sostenere costi “occulti”, che a propria volta hanno prodotto pari ricavi “occulti”, salvo che il contribuente indichi il beneficiario del prelievo.
Oggetto della questione di legittimità costituzionale, tanto sotto il profilo della violazione del canone di ragionevolezza, quanto del principio di capacità contributiva, è esclusivamente la presunzione relativa ai prelevamenti.

La vicenda nasce dall’impugnazione di un avviso di accertamento dell’Agenzia delle entrate che, a seguito di indagini finanziarie, sulla scorta delle risultanze di conti correnti bancari, recanti versamenti e prelevamenti, entrambi non giustificati, aveva accertato una maggiore base imponibile di un imprenditore individuale sia per le imposte dirette (Irpef e Irap), sia per l’imposta sul valore aggiunto.
La Ctp di Arezzo, con ordinanza di rimessione, ha posto in dubbio la legittimità costituzionale della norma, per essere la stessa lesiva, da un lato, del principio di eguaglianza in danno dei titolari di rapporti bancari, nella misura in cui li assoggetta all’irragionevole “doppia presunzione” che i prelevamenti non giustificati siano acquisti e che dagli acquisti derivino pari ricavi, e da un altro, del principio di capacità contributiva, atteso che l’equiparazione prelevamenti/ricavi comporta che i primi costituiscano imponibile per l’intero, stante l’impossibilità di dedurre i costi correlati a tali ricavi, meramente presunti.
In subordine, la Ctp rimettente deduce l’irragionevolezza intrinseca della presunzione di equiparazione dei prelevamenti su conto corrente ai ricavi, laddove opera anche rispetto agli imprenditori assoggettati a contabilità semplificata, poiché tale regime contabile determina, come ha sottolineato la Consulta nella sentenza n. 228/2014 rispetto ai professionisti, una sorta di “promiscuità” contabile, con conseguente difficoltà di distinguere tra spese personali e spese professionali.

Le motivazioni della Consulta
La Corte costituzionale ritiene non fondate le questioni di legittimità dell’articolo 32 in esame, purché (ed è qui l’innovazione) la disposizione sia interpretata alla luce della Costituzione.
Se da una parte si afferma la non manifesta irragionevolezza della “doppia presunzione”, che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall’imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti, d’altra parte, l’interpretazione costituzionalmente orientata richiede che il contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire l’“incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (sentenza n. 225/2005) affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (articolo 53, primo comma, Costituzione).

La Corte costituzionale evidenzia, che la giurisprudenza di legittimità riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono prove e non meri argomenti di prova, sia perché l’inammissibilità di uno strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge.
Tuttavia, la citata giurisprudenza precisa, che la possibilità per il contribuente di fornire, mediante presunzioni semplici, la prova contraria, rispetto alla presunzione legale di cui all’articolo 32 del Dpr n. 600/1973, non esonera il giudice dalla precisa individuazione dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla verifica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ai movimenti bancari riscontrati e dalla valutazione della gravità, precisione e concordanza degli stessi. Si richiede, in definitiva, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice.

Tali affermazioni sono valide sia quando il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, sia quando sia induttivo cosiddetto “puro”.
Diversamente, violerebbe i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema nel quale fosse consentito alla stessa amministrazione dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi “occulti”, dai quali sono stati prodotti ricavi “occulti”, pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall’imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta da quest’ultimo.
Limitare tale all’affermazione alle sole deduzioni avverso un accertamento induttivo puro sarebbe irragionevole e finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.

D’altra parte, la presunzione in esame, quanto ai prelievi bancari recuperati a reddito d’impresa, quali ricavi “occulti”, si porrebbe in contrasto con il principio della capacità contribuiva poiché, in mancanza di alcuna deduzione di costi, desumibile in via presuntiva, anche con riferimento alle “medie” elaborate dall’amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza inesistente laddove, invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza (cfr sentenze nn. 156/2001, 111/1997, 21/1996, 143/1995, 179/1985 e 200/1976).

Tanto premesso, secondo la Consulta la disposizione censurata, intanto, si sottrae alle accuse mosse, in quanto si interpreta nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati e, quindi, “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e, in particolare, possa eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (sentenza n. 225/2005).
Non fondate sono, poi, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, sempre con riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione, sullo stesso articolo 32, primo comma, numero 2), secondo periodo, del Dpr n. 600/1973, nella parte in cui equipara presuntivamente i prelievi ingiustificati non risultanti dalle scritture contabili ai ricavi anche per gli imprenditori assoggettati a un regime di contabilità semplificata ai sensi dell’articolo 18 del Tuir.

Il giudice tributario di merito, a sostegno della citata questione, riprende in larga parte, le argomentazioni sottese alla sentenza n. 228/2014, con cui la Corte costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui, dopo l’intervento della legge n. 311/2004, aveva esteso anche ai lavoratori autonomi la presunzione iuris tantum per la quale i prelievi su conto corrente si considerano “compensi” così come si considerano “ricavi” per il contribuente imprenditore, ha in motivazione sottolineato che tale declaratoria si imponeva, oltre che per la natura dell’attività dei professionisti, anche per la circostanza che gli stessi possono legittimamente avvalersi di regimi di contabilità semplificata connotati da una sorta di “naturale promiscuità” tra le spese sostenute per l’esercizio dell’attività professionale e quelle personali.
Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, sebbene possano individuarsi delle affinità tra lavoratore autonomo e imprenditore, non è possibile, in ragione del solo regime di contabilità in concreto adottato dal contribuente, assumere un’equiparazione tra la situazione dei lavoratori autonomi e professionisti e quello degli imprenditori commerciali; i quali ultimi si caratterizzano – come evidenziato dalla stessa sentenza n. 228/2014 – per le continue movimentazioni sul conto corrente, dovute ad attività nelle quali, a differenza di quanto avviene per lavoratori autonomi e professionisti, prevale, sul lavoro proprio dell’imprenditore, l’apparato organizzativo che lo sostiene.

Peraltro successivamente, con il Dl n. 193/2016, lo stesso legislatore è intervenuto sulla disposizione censurata proprio per risolvere il problema delle eventuali difficoltà probatorie derivanti da situazioni come quella dell’imprenditore assoggettato a contabilità semplificata, prevedendo adeguate soglie di movimentazioni giornaliere su conto corrente (sino all’importo di mille euro) e mensili (sino all’importo complessivo di 5mila euro), solo dopo il superamento delle quali opera la presunzione in esame.
Quest’ultima, pertanto, non solo non è manifestamente arbitraria (articolo 3, Costituzione), ma neppure determina un trattamento ingiustificatamente differenziato in peius per gli imprenditori commerciali assoggettati al regime di contabilità cosiddetta semplificata; né è leso il principio della capacità contributiva (articolo 53, primo comma, Costituzione).

In conclusione, la disposizione di cui all’articolo 32, comma 1, n. 2), del Dpr n. 600/1973, non è incostituzionale, in primo luogo, perché la presunzione legale relativa ivi prevista non contrasta con l’articolo 3 della Costituzione, essendo ammesso il contribuente alla prova contraria, anche mediante l’ausilio di presunzioni semplici; in secondo luogo, perché non viola il principio della capacità contributiva, dal momento che la portata della sentenza della Consulta n. 228/2014, che aveva deciso la legittimità delle regole in parola rispetto ai lavoratori autonomi, non è estensibile alla fattispecie imprenditoriale. Solo ne primo caso la prevalenza del contributo personale giustifica le continue movimentazioni sul conto corrente.
 

Prelievi e versamenti come ricavi, costituzionale la doppia presunzione

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