Giurisprudenza

11 Giugno 2020

In Cassazione solo ricorsi snelli, il codice non ammette ridondanze

A fronte di una sentenza di quattro pagine, che segue un percorso nitido e lineare per risolvere una questione giuridica semplice, non si può proporre un ricorso per cassazione ponderoso e farraginoso che, non rispettando i canoni redazionali di chiarezza e sinteticità, ostacola il compito dei giudici di legittimità. La Ctr ha ragione e la suprema Corte, con la sentenza n. 8425 del 30 aprile 2020, bolla il ricorso come inammissibile.
È questo, in estrema sintesi, l’epilogo della vicenda iniziata con l’impugnazione di un avviso d’accertamento che recuperava a tassazione un maggior reddito di partecipazione in una società, da parte di un contribuente socio della stessa al 50 per cento.

Step processuali
La prima decisione, quella della Commissione tributaria provinciale, è stata favorevole al ricorrente. La Ctr invece, chiamata in causa dall’Agenzia, l’ha riformata, ritenendo infondata la lamentela della parte privata, relativa a una supposta carente motivazione dell’avviso d’accertamento. Per i secondi giudici, infatti, non esiste una norma tributaria che imponga la formale comunicazione al contribuente dell’atto recapitato alla società (contenente la riproduzione del pvc nei suoi elementi essenziali, idonei a individuare le ragioni della pretesa tributaria), essendo sufficiente il riferimento allo stesso nell’accertamento notificato al socio. A quest’ultimo, in sostanza, non era stato impedito di svolgere una compiuta difesa.
Contro la sentenza d’appello, il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione. La suprema Corte lo ha dichiarato inammissibile.

La pronuncia
I giudici di legittimità, che si sono trovati al cospetto di un ricorso di 239 pagine, articolato in dodici motivi, illustrati anche in una memoria (ex articolo 378 cpc), ne hanno dichiarato l’inammissibilità con puntuali osservazioni precedute dalla considerazione che, in base all’articolo 366, primo comma, nn. 3 e 4, cpc, l’atto di impugnazione deve essere “redatto in forma sintetica, con una selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice, in un’ottica di economia processuale, che deve trovare riscontro nella formulazione, altrettanto concisa, dei motivi di ricorso, i quali, in assenza di un simile sforzo di sintesi, si risolvono in censure astratte ed avulse da un contesto storico”.
Limiti contenutistici più volte “interpretati” dalla stessa Corte (cfr, tra le altre, Cassazione nn. 17698/2014 e 21297/2016), da cui si ricava che il ricorso per vizi di legittimità non deve risolversi in una mera compilation, dove il caso giuridico, sul quale è richiesto l’intervento interpretativo della Corte suprema, perde i contorni. I fatti di causa, che non sono soltanto quelli storici contestati, ma anche le valutazioni delle parti e dei giudici di merito, vanno sintetizzati attraverso l’eliminazione “del troppo e del vano”. Questo perché l’atto di impugnazione in Cassazione deve traslare la vicenda dal piano del merito a quello di legittimità, tracciando il binario lungo il quale la Corte suprema deve muoversi per tirarne le fila, e non ostacolando o caricando l’ultimo giudice di un compito che non gli compete.
Per la Cassazione “l’inosservanza del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali…espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del processo (che non è sanzionata da alcuna norma) ma in quanto rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4, dell’art. 366, cod. proc. civ., assistite, queste sì, da una sanzione testuale di inammissibilità” (Cassazione, n 21297/2016). Il ricorso alla loro attenzione travalica abbondantemente tali limiti.

I dodici motivi, infatti, sono presentati in maniera talmente confusa, da impedire ai supremi giudici di individuare le critiche rivolte alla sentenza impugnata. Il linguaggio è pesante, di difficile comprensione, ridondante e ripetitivo, quasi a voler ostacolare consapevolmente il discernimento di ogni elemento di fatto e di diritto alla base delle doglianze. A parere della suprema Corte, in tal modo, è stato disatteso l’obbligo di sinteticità e chiarezza fissato, per i ricorsi alla Corte di legittimità, dall’articolo 366 cpc.

Aldilà, poi, degli insuperabili difetti contenutistici, di espressione e di struttura formale (inammissibilità strutturale, ex articolo 366, primo comma, nn. 3 e 4, cpc), il ricorso è anche affetto da inammissibilità funzionale (ex articolo 360-bis, n. 1, cpc).
In proposito, si sono più volte pronunciate le sezioni unite della Cassazione, precisando che “in tema di ricorso per cassazione, lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334, comma 2, c.p.c., sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi ‘inconsistenti’” (cfr Cassazione, sezioni unite, nn. 7155/2017, 4366/2018 e 5001/2018).

Insomma, per la Corte suprema i motivi e l’intero impianto strutturale delle lagnanze sono inammissibili. La sentenza impugnata, oltretutto, è più che condivisibile in quanto afferma che, non avendo il contribuente fornito elementi idonei a  ribaltare la pretesa tributaria, non vi è alcuna ragione per disattenderla solo perché l’avviso di accertamento al socio semplicemente rinviava a quello notificato alla società.
In particolare, la Cassazione fa notare che la pronuncia contestata è assolutamente in armonia con il proprio radicato orientamento, in base al quale quando si tratta di accertamento delle imposte sui redditi, l’obbligo di mettere il contribuente in condizione di conoscere le ragioni della pretesa fiscale (articolo 42, Dpr n. 600/1973) è soddisfatto dall’avviso recapitato al socio che rinvii “per relationem” a quello notificato alla sola società. Il socio, infatti, a norma dell’articolo 2261 del codice civile, ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società, e quindi di prendere visione sia dell’accertamento presupposto che dei documenti richiamati a suo fondamento (cfr Cassazione, tra le altre, pronunce nn. 14275/2018 e 5645/2014).

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