4 Maggio 2020
Corte Ue: giusta l’imposta italiana che mira alle transazioni sui derivati
Non confligge con le regole comunitarie la “nostra” disciplina che assoggetta a imposta le transazioni finanziarie sui derivati, indipendentemente dal luogo in cui la transazione è conclusa o dallo Stato di residenza delle parti, qualora i derivati siano basati su un titolo emesso da una società stabilita in Italia (Corte Ue, causa C- 565/18, sentenza del 30 aprile 2020).
La questione pregiudiziale
La domanda di pronuncia pregiudiziale in commento è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone una società, con sede in Francia, all’Agenzia delle entrate, in relazione a una domanda di rimborso dell’imposta sulle transazioni finanziarie relativa a strumenti finanziari derivati assolta dalla stessa società.
In particolare, l’articolo 1 della legge n. 228/2012 (la Stabilità per il 2013), al comma 491, prevede l’applicazione dell’imposta sulle transazioni finanziarie in relazione al trasferimento della proprietà di azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi emessi da società residenti nel territorio dello Stato, nonché di titoli rappresentativi di tali strumenti, indipendentemente dalla residenza del soggetto emittente. Il successivo comma 492 prevede, inoltre, l’applicazione di un’imposta sulle transazioni finanziarie anche con riferimento alle operazioni su strumenti finanziari derivati che abbiano come sottostante, prevalentemente, uno o più strumenti finanziari di cui al comma 491, o il cui valore dipenda, prevalentemente, da uno o più degli strumenti finanziari di cui al medesimo comma, e le operazioni sui valori mobiliari che permettano di acquisire o di vendere, prevalentemente, uno o più strumenti finanziari di cui al comma 491.
L’imposta è dovuta indipendentemente dal luogo di conclusione della transazione e dallo Stato di residenza delle parti contraenti.
La società francese presentava, tramite la sua filiale italiana, una dichiarazione all’Agenzia delle entrate ai fini dell’imposta sulle transazioni finanziarie, ma successivamente chiedeva il rimborso delle somme versate a titolo di tale imposta.
In mancanza di un riscontro favorevole, la società proponeva ricorso sia in Ctp che in Ctr.
A questo punto, il secondo giudice sottoponeva al vaglio pregiudiziale della Corte Ue la seguente questione con cui chiedeva, in sostanza, se gli articoli 18, 56 e 63 del Tfue debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro che assoggetta a un’imposta e ad adempimenti amministrativi e dichiarativi le transazioni finanziarie relative a strumenti finanziari derivati, che gravi sulle parti dell’operazione, indipendentemente dal luogo in cui la transazione è conclusa o dallo Stato di residenza di tali parti e dall’eventuale intermediario che interviene nell’esecuzione della stessa, qualora tali strumenti siano basati su un titolo emesso da una società stabilita in tale Stato membro.
Le valutazioni della Corte Ue
La Corte di giustizia Ue esamina la questione sollevata alla luce del principio di libera circolazione dei capitali.
Al riguardo, osserva che le misure vietate dall’articolo 63, paragrafo 1, Tfue, in quanto restrizioni ai movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dall’effettuare investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di questo Stato membro dall’effettuarne in altri Stati.
Il diritto conferito agli Stati membri dall’articolo 65, paragrafo 1, lettera a), Tfue, di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria, in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale, costituisce una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali. Tale deroga subisce a sua volta una limitazione per effetto delle disposizioni nazionali dell’articolo 65, paragrafo 3, Tfue, secondo le quali le norme di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo “non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo 63”.
Occorre, pertanto, distinguere le differenze di trattamento consentite dall’articolo 65, paragrafo 1, lettera a), Tfue, dalle discriminazioni vietate dal paragrafo 3.
Affinché una normativa tributaria nazionale possa considerarsi compatibile con le disposizioni del trattato, relative alla libera circolazione dei capitali, è necessario che la differenza di trattamento che ne risulta riguardi situazioni che non siano obiettivamente paragonabili, o sia giustificata da un motivo imperativo d’interesse generale.
Inoltre, al fine di accertare l’esistenza di una discriminazione, la comparabilità di una situazione transfrontaliera con una situazione interna allo Stato membro dev’essere esaminata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione.
Nel caso in argomento, la società sostiene che l’imposta prevista all’articolo 1, comma 492, della legge di Stabilità per il 2013, crea discriminazioni tra residenti e non residenti, nonché restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali. La società afferma che tale disposizione tratta in modo identico la situazione dei debitori (di questa imposta) residenti e non residenti, che è tuttavia diversa, e rende, per i secondi, l’investimento negli strumenti finanziari derivati basati su un titolo emesso da una società stabilita in Italia meno vantaggioso rispetto all’investimento in quelli basati su un titolo emesso da un altro Stato. Ne deriverebbe un ostacolo all’accesso al mercato di tali derivati, tanto più che l’applicazione dell’imposta sarebbe associata ad adempimenti amministrativi e dichiarativi che si aggiungono a quelli previsti negli Stati di residenza degli operatori finanziari e dall’eventuale intermediario.
L’imposta in questione riguarda le transazioni relative a strumenti finanziari derivati aventi un collegamento con lo Stato italiano ed è dovuta indipendentemente dal luogo in cui la transazione è conclusa o dallo Stato di residenza delle parti di tale operazione e da quello dell’eventuale intermediario, cosicché i soggetti residenti e non residenti sono sottoposti a un regime impositivo identico.
In particolare, l’imposta si applica allo stesso modo agli operatori finanziari residenti e non residenti nonché alle operazioni concluse nello Stato d’imposizione o in un altro Stato. Infatti, varia in funzione non già del luogo di conclusione delle operazioni o dello Stato di residenza delle parti o di quello dell’eventuale intermediario, bensì dell’importo di tali operazioni e del tipo di strumento in questione.
Risulta, quindi, che le operazioni effettuate in ambito nazionale sono trattate, sul piano fiscale, allo stesso modo delle operazioni analoghe che presentano carattere transfrontaliero e non può essere ravvisata l’esistenza di una disparità di trattamento tra le situazioni dei soggetti residenti e non residenti.
Per quanto attiene alla comparabilità delle situazioni, la normativa nazionale persegue l’obiettivo di garantire una contribuzione alla spesa pubblica da parte dei soggetti che effettuano transazioni finanziarie relative agli strumenti finanziari considerati. Alla luce di tale obiettivo, i residenti e non residenti che partecipano alle operazioni relative agli strumenti finanziari derivati basati su un titolo emesso in Italia, assoggettati all’imposta da tale normativa nazionale, si trovano in una situazione analoga.
Per contro, gli strumenti finanziari derivati le cui attività sottostanti sono disciplinate dal diritto italiano e che sono colpiti da tale imposta non sono equiparabili a quelli le cui attività sottostanti non sono disciplinate da tale diritto e ai quali tale imposta non si applica.
Detto ciò, risulta che l’imposta prevista all’articolo 1, comma 492, della legge n. 228/2012 non contiene una discriminazione vietata dall’articolo 65, paragrafo 3, Tfue.
La Corte ha dichiarato che, da un lato, le conseguenze svantaggiose che possono derivare dalle competenze fiscali dei vari Stati membri, purché il loro esercizio non sia discriminatorio, non costituiscono restrizioni alle libertà di circolazione e, dall’altro, che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adattare il proprio sistema fiscale a quelli degli altri Stati membri.
In particolare, la libera circolazione non può essere intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a stabilire le proprie norme tributarie in funzione di quelle degli altri Stati membri al fine di garantire, in ogni situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia disparità derivante dalle normative tributarie nazionali, considerato che le decisioni adottate da un contribuente riguardo agli investimenti in un altro Stato membro possono essere, a seconda dei casi, più o meno favorevoli o sfavorevoli per lo stesso contribuente.
In tali circostanze, l’imposta italiana non può essere considerata una restrizione alla libera circolazione dei capitali.
Per quanto riguarda l’esistenza di adempimenti dichiarativi e amministrativi connessi all’assolvimento di tale imposta, la Corte non rinviene alcuna indicazione che deponga nel senso che i soggetti non residenti siano assoggettati ad adempimenti diversi da quelli gravanti sui soggetti residenti, né che tali adempimenti eccedano quanto necessario per la riscossione dell’imposta.
Le conclusioni della Corte Ue
Tanto premesso, la Corte Ue perviene alla conclusione che l’articolo 6 del Tfue deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa di uno Stato membro che assoggetta a un’imposta le transazioni finanziarie riguardanti strumenti finanziari derivati, che gravi sulle parti dell’operazione, indipendentemente dal luogo in cui la transazione è conclusa o dallo Stato di residenza di tali parti e dall’eventuale intermediario che interviene nell’esecuzione della stessa, qualora tali strumenti siano basati su un titolo emesso da una società stabilita in tale Stato membro. Gli adempimenti amministrativi e dichiarativi associati a tale imposta e incombenti ai soggetti non residenti non devono tuttavia eccedere quanto necessario per la riscossione di detta imposta.
Data sentenza
30 aprile 2020
Numero della causa
C-565/18
Nome delle parti
Société Générale SA
contro
Agenzia delle Entrate

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