2 Luglio 2020
Senza dichiarazione dei redditi non c’è impresa familiare
Il regime fiscale di imputazione del reddito dell’impresa familiare si applica a condizione che siano rispettati tutti i presupposti giuridici previsti dalla legge, compresa l’attestazione, nella dichiarazione annuale di ciascuno dei partecipanti, di aver lavorato per l’impresa familiare. Di conseguenza, se uno dei partecipanti all’impresa omette di presentare la dichiarazione dei redditi, l’impresa non sarà più qualificata fiscalmente come “impresa familiare”, con l’attribuzione dell’intero reddito accertato al titolare.
Sono questi i temi trattati dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 9506 del 22 maggio 2020.
I fatti
La vicenda trae spunto da un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette notificato a un imprenditore per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Con l’atto impositivo de qua l’Agenzia delle entrate aveva imputato per intero in capo al titolare il maggior reddito derivante dall’attività di farmacista, esercitata in forma di impresa familiare, unitamente al fratello. Avverso il summenzionato avviso di accertamento l’imprenditore aveva proposto ricorso, chiedendo che il reddito accertato non gli fosse attribuito integralmente, ma imputato pro-quota tra i partecipanti dell’impresa familiare secondo il regime previsto dall’articolo 5 del Tuir.
Il ricorso è stato rigettato sia dalla Commissione tributaria provinciale sia da quella regionale.
I giudici d’appello hanno ritenuto infondata la doglianza di parte perché, ai fini dell’imputazione in capo a ciascun familiare del reddito derivante dalle imprese familiari è necessario che ciascuno di essi attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente. Avendo il contribuente omesso di presentare la propria dichiarazione dei redditi non è applicabile il meccanismo di imputazione previsto per le imprese familiari e, di conseguenza, è da ritenersi legittimo l’operato dell’ufficio che ha accertato per intero in capo al titolare il maggior reddito d’impresa.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, lamentando violazione e falsa applicazione dell’articolo 5, comma 4 del Tuir, avendo la sentenza di appello omesso ogni valutazione in merito alla sussistenza dei presupposti previsti dal citato articolo 5, rappresentati e documentati nel corso del giudizio, quali: la scrittura privata recante l’indicazione nominativa dei partecipanti all’impresa familiare e delle quote attribuite ad ognuno nonché l’attestazione di ciascun partecipante di avere lavorato per l’impresa familiare.
I giudici della Suprema corte hanno ritenuto inammissibili i motivi di doglianza e rigettato il ricorso proposto dal contribuente.
La decisione della Corte
Con la decisione in commento la Corte di cassazione ha fornito indicazioni in merito al regime di imputazione del reddito nell’impresa familiare, disciplinata dal punto di vista civilistico dall’articolo 230-bis cc, che considera tale l’impresa nella quale collaborano i componenti della famiglia, che prestano in modo continuativo la propria attività lavorativa.
La disciplina fiscale dell’impresa familiare è contenuta al comma 4 dell’articolo 5 del Tuir che, oltre a stabilire l’imputabilità dei redditi, nei limiti del 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, a ciascun familiare proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, elenca i requisiti affinché si possa applicare lo speciale regime.
In particolare, le disposizioni in materia di tassazione dei redditi dell’impresa familiare si applicano a condizione che:
- i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti
- la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta
- ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Uniformandosi all’orientamento prevalente, la Corte di cassazione ha ancora una volta ribadito che “i proventi derivanti dall’esercizio di un’impresa familiare vanno imputati ai singoli partecipanti a condizione che sussistano i presupposti giuridici indicato dall’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 917 del 1986 per la qualifica di questi ultimi come collaboratori familiari, ossia l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa, le quote loro attribuite nonché l’attestazione, nella dichiarazione annuale di ciascuno dei partecipanti, di aver lavorato per l’impresa familiare”.
Considerando che, nel caso di specie, il contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, manca proprio l’attestazione di aver prestato la propria attività lavorativa nell’impresa in modo continuativo e prevalente. Tale omissione evidentemente non consente di qualificare fiscalmente l’impresa come “impresa familiare” ma come mera ditta individuale a cui non può farsi applicazione il regime previsto dal citato articolo 5.
Di conseguenza i familiari collaboratori non possono essere considerati contitolari dell’impresa familiare e i redditi a loro imputati sono “redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa” (cfr Cassazione n. 2472/2017), e ciò nonostante i partecipanti siano stati indicati come tali nella scrittura privata tra loro sottoscritta.

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