9 Marzo 2017
L’omesso deposito dell’inventarioriqualifica l’erede puro e semplice
Giurisprudenza
L’omesso deposito dell’inventario
riqualifica l’erede puro e semplice
Il chiamato, presentata la dichiarazione di successione beneficiata, deve provvedere all’adempimento entro tre mesi, con possibilità di chiedere una proroga all’autorità giudiziaria
La Corte di cassazione, con due pronunce emesse lo stesso giorno, si è espressa in materia di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, affermando che, ai fini della determinazione dell’imposta di successione, non c’è differenza tra l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario e quella pura e semplice e spetta sempre al chiamato provvedere a documentare, ai sensi delle disposizioni dell’articolo 23, Dlgs 346/1990 (Testo unico sulle successioni), le dedotte passività e procedere alla redazione dell’inventario, ottemperando a quanto disciplinato dagli articoli 485 e 487 del codice civile (Cassazione, sentenze nn. 4564 e 4566 del 22 febbraio 2017).
Inquadramento giuridico e principali pronunce della Cassazione
Con l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, il chiamato accetta di diventare erede del de cuius, ma il patrimonio rimane distinto dal patrimonio dell’erede. Tale atto non determina l’assenza della responsabilità patrimoniale dell’erede, ma la limita al valore dei beni pervenuti, circoscrivendo le conseguenze economiche di una successione onerosa, anche per eventuali debiti tributari.
Affinché un’accettazione con beneficio d’inventario possa produrre effetti nell’ordinamento giuridico e, quindi, anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria, occorrono plurimi adempimenti disciplinati dal codice civile e dalla legislazione tributaria.
In particolare, l’articolo 484 cc prevede che l’accettazione con beneficio d’inventario sia effettuata in forma solenne, ossia mediante dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e inserita nel registro delle successioni conservato nello stesso tribunale.
Inoltre, entro un mese dall’inserzione, la dichiarazione deve essere trascritta, a cura del cancelliere, presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si è aperta la successione.
L’articolo 485 cc disciplina il caso in cui il chiamato all’eredità è nel possesso di beni ereditari.
In tale situazione, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. “Se entro questo termine lo ha cominciato ma non è stato in grado di completarlo, può ottenere dal tribunale del luogo in cui si è aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non deve eccedere i tre mesi. Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice”.
Ai sensi dell’articolo 487 cc, il chiamato all’eredità, che non è nel possesso di beni ereditari, può fare la dichiarazione di accettare col beneficio d’inventario fino a che il diritto di accettare non è prescritto (dieci anni). Quando ha fatto la dichiarazione, deve compiere l’inventario nel termine di tre mesi dalla dichiarazione, salva la proroga accordata dall’autorità giudiziaria a norma dell’articolo 485. In mancanza, è considerato erede puro e semplice.
Nel caso in cui abbia redatto l’inventario non preceduto da dichiarazione d’accettazione, questa deve essere fatta nei quaranta giorni successivi al compimento dell’inventario. In mancanza, il chiamato perde il diritto di accettare l’eredità (articolo 487 cc).
Su tale profilo è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 4566 del 22 febbraio 2017.
La vicenda riguarda una contribuente che, in riferimento al decesso del de cuius avvenuto nel giugno 2000, ha presentato una prima dichiarazione nel dicembre 2000, provvedendo successivamente a presentare una seconda dichiarazione dopo due anni affermando, tra l’altro, di aver accettato l’eredità con beneficio d’inventario con atto del 2002, cui era seguita la dichiarazione di successione, sostitutiva e modificativa della precedente del dicembre 2000.
Secondo la ricorrente, la seconda dichiarazione con accettazione beneficiata spostava il termine per la dichiarazione di successione a una data successiva al 31 dicembre 2000, data, quest’ultima, che segnava il passaggio tra la vecchia e la nuova normativa.
La Commissione tributaria regionale, pur riconoscendo la legittimità della seconda dichiarazione di successione, ha affermato che la mancata redazione dell’inventario entro il termine di tre mesi dall’apertura della successione rendeva la ricorrente erede pura e semplice.
Invero, ad avviso della contribuente, nella specie non dovrebbe trovare applicazione, per la redazione dell’inventario, il termine di cui all’articolo 485 cc, decorrente dall’apertura della successione che sarebbe applicabile agli eredi nel possesso dei beni ereditari, bensì il termine di cui all’articolo 487 cc, non essendo la stessa nel possesso dei predetti beni.
La Corte di cassazione ha rigettato i motivi di gravame affermando che, nel caso in esame, l’inventario è stato redatto comunque oltre i termini dell’articolo 487 cc (inventario redatto solo nel 2011) e che non è stata dedotta la sussistenza di una proroga del termine per tale redazione accordata dall’autorità giudiziaria, come previsto dall’invocato articolo 487.
In merito agli effetti del beneficio d’inventario, la Cassazione più volte si è pronunciata ribadendo che l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario non determina, di per sé sola, il venir meno della responsabilità patrimoniale dell’erede per debiti, anche tributari, ma fa solo sorgere il diritto di questo a non rispondere ultra vires hereditatis, cioè al di là dei beni lasciati dal de cuius. Di conseguenza, è legittima la cartella di pagamento emessa nei confronti dell’erede, salvo il diritto di costui a procedere al pagamento solo nei limiti dell’attivo (cfr Cassazione, 6488/2007 e, da ultimo, 23019/2016).
L’erede, nei cui confronti il creditore faccia valere la propria pretesa creditoria illimitata, ha interesse a far valere la limitazione della propria esposizione debitoria mediante un accertamento giudiziale, in mancanza del quale il titolo non sarebbe più contestabile in sede esecutiva e a tale interesse corrisponde quello del creditore di fare accertare la sussistenza del debito tributario del de cuius, che diventerà esigibile nei confronti dell’erede quando sarà chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell’erede (cfr Cassazione, 14847/2015 e 4419/2008).
Alla tutela di entrambi gli interessi provvede la giurisdizione tributaria, che ha a oggetto sia l’an che il quantum della pretesa tributaria, cioè l’esistenza e la consistenza dell’obbligazione tributaria, sicché spetta al giudice tributario l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta e dei limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato nei limiti di valore dei beni a lui pervenuti (cfr Cassazione, sezioni unite, 7805/2006 e 7792/2005).
Con l’ordinanza 14847/2015, i giudici di legittimità hanno inoltre ribadito che “La limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti ereditari, derivante dall’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, è opponibile a qualsiasi creditore, ivi compreso l’erario. Quest’ultimo, di conseguenza, pur potendo procedere alla notifica dell’avviso di liquidazione nei confronti dell’erede (anche nel caso in cui questi abbia rilasciato i beni ereditari in favore dei creditori), non può liquidare od esigere nei confronti dell’erede l’imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non si sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari, e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell’erede” (cfr Cassazione, 4419/2008 e, in termini analoghi, anche 5529/1983, 25670/2008, 13906/2008 e 4419/2008).
Al fine di far valere questa posizione, anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria, occorre tuttavia porre in essere determinati adempimenti debitamente prescritti anche dal decreto legislativo 346/1990.
Su tale aspetto è intervenuta la sentenza della Cassazione n. 4564 del 22 febbraio 2017.
Il caso riguarda due eredi che avevano accettato un’eredità con beneficio di inventario e non avevano corrisposto alcuna imposta in sede di presentazione della dichiarazione di successione.
L’ufficio aveva notificato due avvisi di liquidazione relativi all’imposta principale di successione emessi per omessa autoliquidazione, in considerazione della non ammissibilità del passivo ereditario indicato nella denuncia di successione.
Le corti di merito si sono espresse a favore dei contribuenti, evidenziando che le ricorrenti, avendo accettato l’eredità con beneficio d’inventario e avendo allegato il verbale redatto dal cancelliere attestante i debiti che ammontavano a una somma maggiore dell’attivo, non avevano provveduto né erano tenute a corrispondere le relative imposte.
Tale tesi è stata disconosciuta dalla Cassazione: “ai fini della determinazione dell’imposta di successione, l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario non implica alcuna deducibilità delle passività diversa da quella ordinaria prevista per l’accettazione pura e semplice del D.Lgs. 20 ottobre 1990, n. 346, artt. 20 e segg., ma rileva in sede di riscossione dell’imposta, essendo la responsabilità dell’erede (o del coerede) beneficiato, ai sensi dall’art. 36, comma 2, del D.Lgs. citato, contenuta nel limite del valore della propria quota ereditaria, con la conseguenza che solo nel momento della riscossione dell’imposta le risultanze dello stato di graduazione civilistico, divenuto definitivo, possono assumere rilevanza per determinare il valore dei beni concretamente ed effettivamente pervenuti al predetto erede, nel rispetto del limite della sua responsabilità per l’imposta di successione, determinata secondo le regole fiscali ordinarie” (cfr Cassazione, 3349/2011 e, anche, 25670/2008).
Alla luce di tali principi, i giudici hanno altresì precisato che, in tema di imposta sulle successioni, il regime di deducibilità dei debiti della massa ereditaria – disciplinato del Dlgs 346/1990, articoli da 20 a 24 – va ricostruito nel senso che tali debiti sono deducibili purché sussistano le condizioni previste dall’articolo 21 e subordinatamente alle dimostrazioni, integranti sistema di prova legale, prescritte dall’articolo 23 (cfr Cassazione, 24547/2007).
In conclusione, la Corte di legittimità, accogliendo la tesi difensiva dell’ufficio, ha sancito l’inidoneità della documentazione prodotta (verbale di inventario redatto dal cancelliere) a supporto delle dedotte passività, non risultando tale documentazione tra quella analiticamente e specificamente indicata dall’articolo 23, Dlgs 346/1990, che costituisce la norma di riferimento non derogabile.
Filomena Scarano
pubblicato Giovedì 16 Marzo 2017

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